CATTEDRA KOLBIANA - ARTICOLI:
"Il percorso creativo dell'amore. Dagli occhi al cuore" di Nuccia Fucile

PREMESSA Durante il lockdown, alla ricerca di notizie su Google, mi ha molto colpito la testimonianza del dr. Giuseppe Talamonti, neurochirurgo presso l’Ospedale Niguarda di Milano, impegnato, in tempo di emergenza, come tutto il personale sanitario, nell’assistenza a  pazienti Covid-19. Il suo coinvolgente riferimento agli occhi, nonché l’emozionante flash su “la faccia di Cristo morente o gli occhi di Maria addolorata, mi hanno  richiamato un mio lavoro, precedentemente pubblicato  e i tanti appunti  non utilizzati,  dovendo essere a  breve respiro e “quella luce che tanti artisti ispirati hanno saputo cogliere” mi ha spinto ad elaborare, ben più modestamente,  il tutto e a raccoglierlo sotto un unico titolo “frammenti di vita non frammenti di teoria” perché, anche in quel soprannaturale di cui con umiltà  ho accennato e in quel trascendente a cui   in punta di piedi  mi sono accostata, ho scelto di  rimanere presente con tutta la  mia umanità, senza ricorrere a “poetiche visioni” o peggio a “mistiche esasperazioni” perché si capisca che il “il percorso creativo dell’amore -  dagli occhi  al cuore” non è utopia ma vita, la nostra vita di cristiani, la nostra vita in Cristo, difficile ma possibile, ardua ma esaltante  come  la vita dei  nostri santi ci dimostra.

 

La testimonianza del dr. Giuseppe Talamonti

Gli occhi! Sono l’unica cosa che ho visto del mio primo paziente Covid. Sono l’unica cosa che lui ha visto di me. Sono un chirurgo e di solito non ho a che fare direttamente con i pazienti Covid. Qualche giorno fa, sono arrivati in ospedale tanti pazienti, tutti insieme, tanto che chiunque avesse una laurea o un minimo di competenza è stato dirottato a fare fronte, a dare una mano. Ho indossato lo “scafandro”, la cuffia avvolgente, i guanti e la doppia mascherina. L’unica cosa di me che si vedeva erano gli occhi, comunque coperti da una speciale maschera di plastica.

L’uomo mi è stato portato davanti all’improvviso. Anche lui aveva il volto coperto da una mascherina chirurgica. Era sotto un oceano di coperte perché aveva brividi per la febbre e respirava male. Di lui vedevo solo gli occhi. Occhi che fino a poco prima avevano contemplato i suoi cari, la sua casa, il mondo di fuori. Occhi che all’improvviso si trovavano in un mondo alieno, circondati da macchine e da extraterrestri come me, dentro strani scafandri. Occhi che esprimevano stupore e paura. Occhi che forse cercavano una moglie e dei figli, che non potevano entrare nel reparto isolamento. Occhi che avevano capito di essere vicini alla fine. Occhi che avevano un disperato bisogno del conforto di un volto familiare…

Non potevo fare molto per lui se non offrirgli uno sguardo di vicinanza attraverso il visore di plastica. Uno sguardo che avrebbe voluto significare “sono un uomo come te e ti sono vicino. Ti stringo la mano, anche se attraverso uno spesso guanto di gomma”. Ho provato a parlargli ma non so se mi abbia sentito. Bisogna alzare la voce dietro la maschera PMM2. Mi ha lanciato indietro uno sguardo che non dimenticherò più per tutta la vita. I suoi occhi hanno parlato con i miei.

In quegli occhi mi sono specchiato. Ho visto gli occhi di Colui che ha sofferto per me sulla croce. …Non ho più visto quell’uomo. Non ricordo neanche come si chiamasse. Non ho potuto fare molto per lui se non pregare. Forse era ateo o di un’altra religione e non avrebbe gradito, ma mi son detto che la mia preghiera, recitata mentalmente, con discrezione, non poteva fargli del male. Il suo sguardo. La sua espressione. Resteranno per sempre con me. In quell’espressione del suo volto, ho trovato quella luce che tanti artisti ispirati hanno saputo cogliere. La faccia di Cristo morente o gli occhi di Maria addolorata. In quello sguardo, in quella espressione c’era il senso del Mistero della vita e il senso della mia professione. In quegli occhi ho ritrovato la risposta alla domanda “che ci faccio io qui se non posso impedire che accada?”. Una persona sola e disperata se n’è andata con un altro essere umano che gli ha tenuto la mano. Non ero più un medico ma solo il suo prossimo.

 

FRAMMENTI DI VITA NON FRAMMENTI DI TEORIA
IL PERCORSO CREATIVO DELL’AMORE -  DAGLI OCCHI  AL CUORE

Che distanza c’è nel nostro corpo tra gli occhi e il cuore? Anche per le persone più alte la misuriamo in centimetri. Il percorso di cui, però,  voglio parlare non va dai nostri occhi al nostro cuore  bensì  partendo dai nostri occhi, passa dal nostro cuore per arrivare al cuore degli altri … é, quindi, un viaggio non solo più lungo ma anche complesso  perché i meandri del cuore umano sono, spesso,  talmente tortuosi e difficili che possono essere sconosciuti anche alla persona stessa, solo Dio li conosce pienamente ed è da Dio che partono le risorse apostoliche quando il nostro sguardo, fisico o spirituale, si ferma su un fratello da soccorrere, una necessità su cui intervenire …   e, allora non dobbiamo smarrirci, né perderci di coraggio, ricordandoci che, strumenti nelle mani dell’Immacolata,  è attraverso di Lei che andiamo incontro alle esigenze del Regno. Se strumenti siamo, non siamo, però, strumenti passivi ma, essendo Militi, al seguito di una Condottiera invincibile, adeguandoci alle sue strategie, dobbiamo saper allineare il nostro sguardo con lo sguardo di Lei e sincronizzare il battito del nostro cuore con il battito del suo Cuore. È, allora, questione di esercizio, di allenamento! C’è, quindi, una palestra per gli occhi ed una palestra per il cuore. È necessario, di conseguenza, conoscere le loro potenzialità per sapere fin dove spingere, fin dove osare. Incominciamo, allora  ed ovviamente, dal punto di partenza: gli occhi. 

La ritualità del quotidiano è fatta di contatto fisico, di gestualità, di parole scambiate e  soprattutto di sguardi. È l’occhio che produce quel magico effetto che si chiama empatia e che abbiamo imparato a conoscere a fondo anche nei suoi meccanismi neurologici. È lo sguardo che fa diventare la persona che ho davanti parte di me stesso e mi fa essere parte dell’altro. Nel volto, sono gli occhi a dire, spesso, quanto le labbra a volte non vogliono o non possono dire, lo sguardo può rivelare più cose delle parole! Con gli occhi gridiamo, supplichiamo, esprimiamo paura, chiediamo aiuto, ma anche amiamo oppure odiamo, creiamo legami o esprimiamo chiusura, mostriamo fragilità od ostentiamo autosufficienza, ascoltiamo o mostriamo disinteresse, approviamo o disapproviamo…  Secondo i casi gli occhi possono trasmettere luce o inquietudine, sicurezza o minaccia. Occhi interrogativi, occhi penetranti,  occhi  tristi, occhi radiosi, occhi ardenti … Quante cose può esprimere uno sguardo! Lo sguardo incanta, attira, innamora, ammira, approva, incoraggia, eleva e crea ma viceversa può anche ferire, offendere, disprezzare, disapprovare, scoraggiare, usare, distruggere … Non è esagerato dire che da uno sguardo può dipendere  una vita! Uno sguardo sereno, luminoso, puro,  quanti sereni, luminosi, puri pensieri può trasmettere, viceversa uno sguardo cupo, truce, ambiguo, avido... che tristi e brutte sensazioni può veicolare! Lascio a voi dedurre … gli occhi dicevano i nostri nonni sono lo specchio dell’anima! Papa Francesco in una delle tante omelie delle messe mattutine a Casa S. Marta ha affermato: “L’occhio è lo sguardo del cuore. Come è il cuore così è anche l’occhio. Se il cuore è ricco di amore, anche l’occhio manifesterà queste virtù. Se invece il cuore è spietato, sporco, anche l’occhio esprimerà questi vizi. Ad ogni suo discepolo Gesù chiede un cuore puro per avere occhi così limpidi da poter vedere Dio. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”.(Mt 5, 8) La necessità di questa beatitudine  evangelica ci rimanda ad un altro insegnamento di Gesù:  “Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna” (Mc 9, 47 ). Ecco perché un tempo si insegnava la modestia degli sguardi, cioè a tenere gli occhi bassi, pure con il rischio di andare a sbattere contro il primo palo, il primo ostacolo o la prima persona che si incontrava … e di suscitare ilarità. Ed è successo!

In questo contesto mi va di citare  un aneddoto che vede coinvolto P. Pietro Giuseppe Pal, uno dei cofondatori della Milizia dell’Immacolata,  ai tempi in cui era seminarista nel convento di  Halaucesti. Quando usciva  per  recarsi a scuola «veniva seguito dagli sguardi incuriositi della gente, desiderosa di conoscere i suoi occhi. Infatti, il seminarista camminava diritto nella persona, con passo rapido, composto ed umile, ma senza ostentazioni,  con i libri di musica tra le mani, con il capo leggermente chino in avanti e con gli occhi aperti tanto quanto era necessario per guardare la strada evitando passi falsi. Molti avrebbero voluto vedere i suoi occhi, ma non vi riuscivano. Né sarebbe stato possibile conoscerli fuori di quella occasione. I più disillusi arrivavano a dire che il seminarista Pal fosse stato “ senz’occhi ” e fu così che si diffuse l’attribuzione di “seminarista senz’occhi” » ( F. Rossetti- Una dolce amicizia- pag 24 ). Un’educazione, forse, molto restrittiva nelle norme ed esagerata nella pratica, ma non per questo priva di fondamento…  In realtà quante  immagini  entrano attraverso la pupilla,  questo forellino  che alla luce intensa si restringe a 1,5 mm e al buio non supera gli 8 mm! E con le immagini quanti pensieri! E con i pensieri quante decisioni! E con le decisioni quanti gesti, azioni, opere, interventi buoni o cattivi!  Gli occhi sono un luogo privilegiato dove si manifesta l’anima e la natura spirituale dell’essere umano. Se tutto il corpo «parla», il volto è la concentrazione della nostra capacità espressiva. Ma se  lo sguardo è la nostra finestra aperta sulla realtà  è anche la porta d’ingresso attraverso cui gli altri possono accedere al nostro mondo interiore e, quando  uno sguardo incrocia un altro sguardo,  è qui che si giocano le sorti di un rapporto che non sempre ha le serene caratteristiche dell’ incontro  e della  comunione, ma può diventare, purtroppo, luogo  di  scontro e di separazione.

Il Cardinale Gianfranco Ravasi, l’8 maggio 2016, a Pompei nell’omelia della S. Messa celebrata il giorno della supplica,   a proposito degli occhi ha detto: «Sono uno degli strumenti fondamentali per la nostra comunicazione oltre e dopo la parola. Sono più importanti per certi versi. Due innamorati autentici, quando hanno esaurito la scorta delle loro parole, magari ripetute, se sono innamorati davvero, si guardano negli occhi e tacciono. E quel linguaggio muto, silenzioso, è molto più intenso di quelle parole che prima si pronunciavano». Continuando a servirsi dell’immagine degli occhi, il Prelato  ha spiegato la duplice direzione  dello sguardo: verso l’alto, cioè verso Dio, e verso il basso, cioè verso l’uomo. «Siamo invitati – ha spiegato – a rivolgere uno sguardo verso l’alto, verso l’infinito tutto. Questo sguardo rivolto oltre l’orizzonte concreto in cui siamo immersi c’insegna che il fiume della nostra vita, dopo aver percorso le varie anse, non ha un abisso di vuoto, un gorgo oscuro in cui si perde. Ha invece una mèta, una luce…».  Da questa certezza scaturisce una consegna: «La parola che io vorrei lasciarvi e che voi cercate, direttamente o indirettamente … è la parola speranza…» La speranza porta anche ad un’altra parola che lo stesso Ravasi ha ribadito «quella parola, che avete sentito tante volte ed era cara anche a San Giovanni Paolo II: “non abbiate paura”, “non temete”. Pensate, nella Bibbia, questa parola risuona 365 volte. È un po’ come il buongiorno che Dio vi rivolge ogni mattina. Anche quando la mattina è tenebrosa … Anche quando dentro di voi c’è la desolazione. Non abbiate paura. La speranza vi indica la mèta ultima … ».

Ma lo sguardo deve essere rivolto anche verso il basso, sulla strada,   sulle pietre, “le pietre che sono sulla terra”…  «Esse portano ancora le orme insanguinate del Cristo che sta passando per le nostre strade» Lo sguardo verso il basso significa: ritornate ancora a guardare. Pensiamo in quante case, anche in questo momento, c’è per esempio la solitudine assoluta, il silenzio, il non avere più una persona che si ricordi di te, che ti dia uno squillo di telefono, che ti faccia una carezza. E c’è la separazione, la divisione, la lacerazione. O ci sono genitori che vivono nel terrore per i figli che hanno imboccato delle strade di perdizione, travolti dalla droga, dalla violenza, dalla disperazione o anche dall’impossibilità di trovare lavoro». Fin qui le parole del nostro biblista. Ma oggi, dentro le case segnate dal dolore, nelle corsie degli ospedali e  delle case di riposo ha aleggiato in permanenza il nero spettro  della morte:  il Coronavirus ha fatto migliaia e migliaia di vittime e su queste nostre strade impolverate, sulle orme insanguinate di Cristo ci hanno impressionato le lunghe file di camion militari che trasportavano le salme verso le fosse comuni  o verso la cremazione. Un virus, un’entità biologica piccolissima, costituita da   un pacchetto di RNA, circondato da una capsula di proteine, ha seminato lacrime e dolore, fatiche ed incertezze; una struttura non vivente, capace, però, di  moltiplicarsi all’interno delle nostre cellule , ci ha sconvolto l’esistenza, strappando  centinaia e centinaia di persone care  all’affetto delle loro famiglie, in modo drastico e drammatico. Trasportati in ospedale, non hanno più fatto ritorno alle loro case, vittime di un microscopico killer  che, ancora oggi, come un nemico sconosciuto, come un animale famelico, aggirandosi in modo subdolo ed  imprevedibile, sta disegnando una nuova geografia dell’umanità, sta scrivendo per il mondo una nuova storia  che, allo stato attuale,  appare a fosche tinte, quasi senza speranza ed è questo,  per noi cristiani,   uno di quei   momenti inquietanti della storia che ci interpella, sia a livello ecclesiale che individuale,  a scendere in campo non per suscitare polemiche, né per fare politica ma  per offrire,  senza imporre, alla società di cui facciamo parte, con il profumo della fede e il balsamo della carità, il conforto e il sostegno della speranza, intesa come possibilità di un nuovo inizio,  l’incipit di una resurrezione che in fondo è il  fulcro stesso dell’annuncio cristiano. Se non siamo del mondo, siamo,  però, nel mondo e, quindi, chiamati ad essere non solo una presenza spirituale ma, anche, storicamente presenti con la nostra  testimonianza di vita e di  opere.


ENTRARE NELLA STORIA: PERCHÉ, QUANDO, COME?

Entrare nella storia  per cogliere e far cogliere, nonostante le difficoltà, e il dilagare del male morale e  spirituale, psicologico e fisico , il passaggio, la presenza di Dio che, pur nella sua trascendenza, non se  sta nel più alto dei cieli ma, facendosi carne,  assumendone tutte le debolezze e fragilità, tranne il peccato, oltre 2000 anni or sono, è entrato, a sua volta, nella storia e non ne è più uscito. Questo Dio che con il suo amore attraversa e supera i nostri limiti e debolezze, che è tra noi e con noi, è un Dio, tutto sommato  “inquietante” perché, a dar retta al Vangelo, Matteo 25, volendoci incontrare, per facilitarci il compito, si nasconde in ogni uomo, ci viene a visitare ogni giorno attraverso chi soffre e chi lotta per la sopravvivenza e,  invitandoci  a fare  nostri  i loro bisogni e le loro necessità, ci spinge a farlo avvertendoci e garantendoci che ogni qualvolta avremo fatto o non fatto qualcosa ad uno di loro lo avremo fatto o non fatto a Lui, perché, come scrive  Papa Francesco: «In ognuno di questi “più piccoli” è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo   visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga, per essere  da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: ‘Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore’ » (MV,n.15).
Ma attenzione! Oltre che un Dio inquietante, può essere anche un Dio “scomodo” perché  lo possiamo  incontrare sulla nostra strada non solo in chi può commuoverci, farci tenerezza perché ha  fame, ha sete, è solo, è senza vestiti, è malato, è straniero ma ci invita ad accoglierlo anche in quelle persone delle quali,  per il nostro ostentato perbenismo o la nostra malcelata schifiltosità, ci vergogniamo, arricciamo il naso o  ci sentiamo disturbati perché Lui non “si pregia” di frequentare la “gente che conta”,  le “persone dabbene” ma mangia con i peccatori, si circonda di storpi, ciechi, lebbrosi, prostitute e gente di malaffare, insomma, rivaluta i rottami della società, quelli che gli altri rifiutano e, come se non bastasse, colmo dell’ironia per i “non addetti ai lavori”, nel seguirlo ci porta tra rovi e spine a cercare la pecorella smarrita, ci fa preparare la festa per il figlio prodigo, ci fa porgere l’altra guancia a chi ci ha già dato  uno schiaffo … Inquietante, scomodo ma, a modo suo, è anche un po’ “trasformista”  perché quando ti sei abituato a Lui, quando tutto sommato incominci  a  sapergli stare appresso, a tenere il suo passo,  può nascondersi, non farsi trovare, camuffarsi,  anzi, come ha scritto Frei Betto, un esponente della teologia della liberazione,   "quando lo  cerchiamo nel tempio, Lui si trova nella stalla; quando lo cerchiamo tra i sacerdoti, si trova in mezzo ai peccatori; quando lo cerchiamo libero, è prigioniero; quando lo cerchiamo rivestito di gloria, è sulla croce ricoperto di sangue"…  Fuori dalla metafora il consacrato  ma, in sensu lato, l’esortazione può essere estesa ad ogni cristiano, come ha scritto  il Papa quando era provinciale del suo Ordine, “deve essere pronto a cercare e trovare Dio in tutte le cose e in tutte le situazioni con cuore e occhio attenti. Si tratta di una sfida pastorale, ma anche profondamente spirituale. Qui è in gioco la capacità dell'anima di riconoscere Dio non dove i nostri sensi sono abituati a trovarlo, ma dove egli decide di essere e di operare”  ci viene  chiesto di riconoscere che non possiamo, di fronte a chi è nel bisogno, vedere e, facendo finta di niente,  passare oltre; ci viene chiesto, come al Buon Samaritano,  di fermarci … di chinarci … di  farci carico … di curare …  , in sintesi, di riscoprire, quotidianamente, l’attualità, la profondità e il senso immutato delle opere di misericordia corporali e spirituali. 

Misericordia, una parola composta da miser e cordis: - aprire il nostro cuore al misero-  questo viene chiesto al singolo ma anche ad ogni comunità ecclesiale nel suo complesso che non può rintanarsi nella confortevole penombra della sacrestia o inebriarsi al profumo di incenso,  ma deve uscire fuori, sfidare, reggere l’urto di quelle che Papa Francesco ci ha insegnato a chiamare “le periferie geografiche ed esistenziali dell’umanità”.  Bisogna allora guardare gli altri con occhi di misericordia, abitare il mondo con il cuore, al di là dei tanti progetti più o meno a lunga scadenza, delle soluzioni prestabilite, degli interventi programmati di cui,  tra l’altro,  la pandemia ci ha evidenziato  in molti casi tutta la provvisorietà, inconsistenza e inutilità.

Lo sguardo e il cuore della Chiesa 

Come il singolo, così la  Chiesa, comunità dei credenti, pena la sua affidabilità,  non può essere indifferente alle sofferenze degli uomini, ce lo ha  ricordato il Concilio nel 1965: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e degli uomini che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes n.1). e ce lo ribadisce   Papa Francesco: «L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia … La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole». (M.V., 10). 

Scriveva  don Primo  Mazzolari: la Chiesa «incomincia dove qualcuno fa posto, nella sua anima e nella sua casa ai poveri». Occorre, allora,  fermarci a riflettere perché la nostra carità sia sempre più  sollecita, sempre più attenta alle esigenze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle; perché il nostro agire sia sempre più consapevole ed assuma un concreto atteggiamento di servizio; siamo, infatti,   seguaci di Gesù,  discepoli di un Maestro che è venuto per servire e non per essere servito. (cfr Mc 10, 45) È, quindi, questo, sulle sue orme, il nostro ruolo privilegiato, il ruolo privilegiato della Chiesa. Non ci viene imposto di fare cose straordinarie  ma di fare del servizio una norma di vita non come un optional  ma come  un’esigenza del Vangelo che  ci chiede di stare dalla parte degli ultimi. Il mondo, ha bisogno, come  si è espresso il Cardinale Francesco Montenegro,  di  “una Chiesa che ama servendo e che serve amando, perché una Chiesa che non serve, non serve a niente… Una Chiesa che serve è come il sale che dà sapore sciogliendosi, come la candela che fa luce consumandosi, come il lievito che fermenta mescolandosi con la farina, come il chicco che sì fa grano marcendo” (04-07-2017 anno giubilare bicentenario diocesi Piazza Armerina). Per non venir meno a questa missione, facciamo nostra l’esortazione di Papa Bergoglio; “apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto” (M.V., 15).  Non bisogna aver paura di guardare in faccia  la realtà, né dobbiamo chiudere il cuore al «grido del popolo» verso Dio (cfr Es 3,9) bensì dobbiamo affinare la nostra sensibilità, saper sperimentare nuove modalità di approccio per continuare, “a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta” per non cadere “nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge...” (M.V.,15).

La Chiesa, da madre, alla quale  sta a cuore la vita dei suoi figli, si fa attenta ai  bisogni e alle esigenze,  alle attese e alle aspirazioni del mondo che, quasi inconsapevolmente, è vittima di una diabolica manovra di negazione di Dio, di desacralizzazione e di perdita di valori e, spinta dalla Carità, “Caritas Christi urget nos” (2 Cor 5,14), non può non cercare di rigenerarli con la potenza ricreatrice del Vangelo,  sforzandosi di trovare il modo più adatto per annunciare la Parola di Dio,  proprio a partire da questo  grido. “C’è un’umanità intera che aspetta: persone che hanno perduto ogni speranza, famiglie in difficoltà, bambini abbandonati, giovani ai quali è precluso ogni futuro, ammalati e  vecchi abbandonati, ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore, uomini e donne in cerca del senso della vita, assetati di divino…”. (Lettera Apostolica del Santo Padre Francesco a tutti i consacrati..., cit., II. 4.).

Non possiamo ripiegarci su noi stessi,  rimanere egoisticamente prigionieri dei nostri problemi, questi si risolveranno se andremo fuori e aiuteremo gli altri a risolvere i loro problemi. Una Chiesa che sa che il suo compito principale è l’evangelizzazione ma non lega l’annuncio alla realtà che si vive ogni giorno, ai temi e alle problematiche della giustizia, della dignità,  del lavoro, dello sfruttamento, dell’emigrazione, che non tocca, non giudica e non interpella la vita e i fatti che avvengono,  non solo è sfasata e dissociata dalla realtà ma si mette fuori  dalla storia  ed  anche dal  Vangelo.  Dobbiamo allora saper spostare il baricentro; se centreremo la nostra vita   in Dio e sulla sua Parola, troveremo  la vita spendendola, la speranza dando speranza, l’amore amando. Non è possibile, infatti, confessare  la fede in Cristo, senza renderci conto  di  quanta povertà esiste attorno a noi e non soltanto quella materiale!. È necessario pertanto   imparare ad  ascoltare lo Spirito Santo per  acquisire il giusto  equilibrio tra il tempo da dedicare  a Dio e alla preghiera e il tempo da spendere alla cura dei nostri fratelli più poveri soccorrendoli nello loro necessità e annunciando loro la buona novella.   La preghiera  qualifica la vita e la vita invera la preghiera  É difficile  comprendere una Chiesa pronta a fermarsi davanti all’Eucarestia (è giusto ed è  bene che sia così) ma non altrettanto pronta a fermarsi davanti al povero.  Nel  pane eucaristico  riceviamo lo stesso Gesù che incontriamo nel povero, in modo diverso, ma  sono tutti e due lo stesso Cristo. Don Primo Mazzolari affermava che   in ciascuno che ha fame e sete, che è senza casa e senza vestiti, malato e prigioniero […] come in un ostensorio è presente il Signore. Certamente, è più facile avvicinarsi ad un pezzo di pane che non chiede nulla se non di essere mangiato, invece che  ad  un uomo scomodo, il povero lo è per tanti motivi, per il quale non può bastare fargli scivolare tra le mani una moneta. La Chiesa, se vuole essere credibile,  di fronte a situazioni di crisi, non può chiudere gli occhi, barricarsi, rifiutare di scendere sulla strada ,  deve , bensì, mostrarsi ed essere “ Chiesa aperta”  alle sfide del mondo, intraprendente nel servizio, coraggiosa di fronte alle piaghe di questo tempo e  là dove la Provvidenza la pone e  dove sono sempre presenti uomini e donne,  membra piagate di Cristo, segnati da ferite di ogni specie di violenza, sia nel corpo che nello spirito. Una Chiesa così è una Chiesa “estroversa”, accogliente, “in uscita” come la definisce papa Francesco, senza pareti e senza tetto, aperta a tutti, capace di accogliere tutti . In un mondo globalizzato,  tutta la Chiesa, non solo la parrocchia, deve mirare ad essere la “fontana del villaggio”  a cui tutti possono attingere l'acqua fresca del Vangelo e  presso cui tutti  possono incontrarsi, accogliersi, aiutarsi  in  ogni circostanza e in tutte le  stagioni della vita, nei giorni di gioia ma anche in quelli della prova. Dunque, l'identità della Chiesa non è una cosa separata e distinta dalla sua missione. La Chiesa, essendo una realtà viva, non può disancorarsi dalla storia, bensì presa coscienza, proprio come se fosse una persona, delle necessità  dell’umanità deve scegliere di schierarsi coi poveri, qualunque sia la loro necessità o indigenza, come ha fatto Gesù che, come uomo,  si è lasciato  profondamente coinvolgere dagli  eventi e situazioni del suo tempo ed ha dimostrato una grande  attenzione per le vicende dei suoi contemporanei. È stato un Maestro che ha scelto per insegnare non il tempio, né i portici, né le piazze ma la strada, dove con umanità e sensibilità profonde si è fatto prossimo a tutti,  specialmente dei  più reietti della società, di quanti erano ritenuti per la loro condizione sociale, morale o fisica, non solo immondi e, quindi indegni, di entrare nel tempio ma, addirittura,  lontani dallo sguardo  benevolo di Dio  e li ha chiamati, è  andato a cercarli, come i servi del Re della parabola (Mt 22,1-14)  degli invitati a nozze, nei crocicchi, che in quel tempo, in Israele , non erano brulicanti di gente, come  i nostri,  ma si possono far corrispondere, piuttosto,  alle periferie,  soprattutto quelle esistenziali cui fa riferimento  papa Francesco il quale, a riguardo, ripropone alla Chiesa la “conversione pastorale”, cioè  passare da una  conduzione statica e legalista, fiscale e normativa ad una  pastorale aperta  verso un orizzonte  missionario dove c’è spazio per l’uomo nella sua integralità di anima e di corpo, di mente e di cuore, di sentimenti e di spiritualità. Non una Chiesa dei riti  vuoti senza alcuna corrispondenza con la realtà, delle tradizioni quasi paganeggianti, delle pie  pratiche che non trovano riscontro nella vita, ma  piuttosto, “la Chiesa che fa esperienza del Risorto, che Lo incontra nella storia e che è capace di evangelizzare tenendo in mano assieme alla Bibbia il grande libro della storia,  non solo quella scritta ma quella vissuta tutti i giorni” (Cardinale  Montenegro) . Se le nostre liturgie restano ancorate ai “drappeggi spirituali o pastorali”, ed è bene sottolineare che ci sono dei nostalgici  sempre in allerta, a lungo andare, riveleranno una religiosità apparente, vuota di Dio, sarà il risultato di   una Chiesa sterile, non incarnata nella vita,  i cui  pastori,  «uomini che all'inizio promettevano di guidare un gregge, hanno finito con l'accarezzare gatti angora» altro che essere padri e guide, altro che odorare di pecore! Sono parole di Papa Bergoglio che ci invitano , ci sollecitano a fuggire da queste situazioni di asfissia per respirare l’aria pura dello Spirito Santo!  Chiediamoci, perciò, a livello di gruppi, parrocchie, diocesi, commissioni episcopali…Papa, la Chiesa tutta nella sua cattolicità, se  nel nostro modo di essere e di agire stiamo testimoniando il Vangelo oppure ci stiamo accontentando di  vivacchiare alla meglio sul, retaggio di un passato che, per quanto possa essere “glorioso”, non illumina il presente e non prepara il futuro,. perché manca di quello sguardo escatologico nei confronti dei valori del Regno che, nella logica dell’incarnazione, possono essere vissuti anche su questa terra. Come  una boccetta di profumo deve essere aperta o rotta perché si espanda la sua fragranza,  così  la Chiesa,  per essere attrattiva,  deve rompere con la staticità del passato, dare nel presente testimonianza di un modo diverso di fare, di agire, di vivere per  aprirsi ad un futuro  ricco di speranza . Non si tratta di rinnegare in toto il passato e le sue tradizioni  perché sono  come le radici che permettono al tronco di un albero di crescere e alla sua chioma di allargarsi, ma se si vogliono raccogliere  sempre nuovi frutti  bisogna, secondo i casi, potare, innestare, concimare, irrigare… La Pastorale, quindi, non è esente dalla fatica e dal lavoro di una continua ricerca per adeguarsi strutturalmente ai tempi e attualizzare l’Annuncio.. Non è più il tempo del “si è fatto sempre così” o   del “copia-incolla” da un anno all’altro! Nella fedeltà al Messaggio, bisogna trovare modi nuovi, strategie nuove, strade nuove. “Non nova, sed nove”; non cose nuove (anche, se necessario!) ma in modo nuovo, con quella novità dello Spirito che rende nuove tutte le cose.  É questo un impegno personale, ma soprattutto  comunitario;  sono  in  gioco di fronte al mondo la nostra testimonianza di ascoltatori attenti e la nostra conseguente coerenza di fedeli esecutori della parola di Dio (cfr. Gc 1,19-25).

Lo sguardo e il cuore di Gesù

Papa Francesco, il 18 maggio 2013, durante la Veglia di Pentecoste  ebbe a dire: «Il valore della Chiesa, fondamentalmente, è vivere il Vangelo e dare testimonianza della nostra fede. La Chiesa è sale della terra, è luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio e lo fa prima di tutto con la sua testimonianza, la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione».  Il nostro sguardo sul mondo non deve, quindi, essere solo espressivo ma anche causativo, come quello di  Gesù … Lui vede e provvede … come quando,  posando il suo sguardo sulla folla sfinita,  si commuove e con  sollecitudine  trova il modo di sfamarla. Lo sguardo di Gesù partecipa, con-patisce e prende a cuore il problema di chi gli sta di fronte ed interviene nella concretezza delle situazione! È questa ha detto il Papa in una delle sue messe mattutine a Casa S. Marta (31-01-2017) «la peculiarità dello sguardo di Gesù. Gesù non massifica la gente: Gesù guarda ognuno». Colpisce, infatti, nel Vangelo il fatto che Gesù, pur muovendosi in mezzo alla folla che lo comprime da tutte le parti, quasi sempre circondato da una moltitudine acclamante, riesca a polarizzare la sua attenzione  sul “singolo”; ogni  grido o pianto o anche  un’implorazione silenziosa non cade mai nel vuoto e il suo cuore si commuove ed è  ora la salvezza dell’anima, ora la salute del corpo: “va in pace, la tua fede ti ha salvato” “ti sono rimessi i tuoi peccati” “sei guarito” “sei mondo” “alzati e cammina”… e, in questo andare verso gli altri, per placare il loro dolore sfida,  Lui è Dio e lo può fare, anche  la morte: «Lazzaro, vieni fuori!» e così consola Marta e Maria; “ragazzo, dico a te alzati” ed asciuga le lacrime della vedova di Naim; “fanciulla, io ti dico: alzati” e ridona la figlia ad un padre che nel dolore ha creduto in Lui. Com’ è consolante fidarsi del Maestro Divino! Il suo potere taumaturgo rinnova, rigenera l’esistenza: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10) e la vita che Lui vuole donarci non è una vita generica ma la sua stessa vita divina  capace, se ci orientiamo verso di Lui,  di colmare tutti i nostri vuoti, di  estinguere la nostra fame e sete di felicità, di  placare le nostre insoddisfazioni, …di porre fine alle nostre ricerche perché abbiamo finalmente trovato il tesoro nascosto, la perla preziosa (Mt 13, 44-46). Tutto cambia, niente è più come prima, si mette una pietra sul passato e ci si apre ad un futuro nuovo e pieno di luce. Tutto questo si chiama “conversione”.  Sulle conversioni operate da Gesù si sono scritte pile di libri, sono scorsi fiumi e fiumi di inchiostro ma a me piace riportare le semplici, incisive parole di Papa Francesco che, a proposito della conversione di Matteo e Zaccheo, punta tutto sullo sguardo del Divin Maestro.
«Gesù guardava ognuno, e ognuno si sentiva guardato da Lui   quel suo sguardo  pieno di amore  smuoveva  il cuore, cambiava la vita… Matteo arroccato al suo  banco  di gabelliere ‘appena sentito nel suo cuore quello sguardo, egli si alzò e lo seguì’. E questo è vero: lo sguardo di Gesù ci alza sempre. Uno sguardo che ci porta su, mai ti lascia lì, mai. Mai ti abbassa, mai ti umilia. Ti invita ad alzarti. Uno sguardo che ti porta a crescere, ad andare avanti, che ti incoraggia, perché ti vuole bene. Ti fa sentire che Lui ti vuole bene. E questo dà quel coraggio per seguirlo: ‘Ed egli si alzò e Lo seguì» (Casa Santa Marta, 21-09- 2013).

«Il primo sguardo non è di Zaccheo, ma di Gesù, che tra tanti volti che lo circondavano - la folla - cerca proprio quello. Lo sguardo misericordioso del Signore ci raggiunge prima che noi stessi ci rendiamo conto di averne bisogno per essere salvati. E con questo sguardo del divino Maestro comincia il miracolo della conversione del peccatore. Infatti Gesù lo chiama, e lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» ( Angelus.3-11-2019).
E nell’uno e nell’altro caso  è subito festa, come nella parabola del Padre Misericordioso,   con dei commensali che fanno arricciare il naso ai ben pensanti, ai precisini della Legge… il fior fiore dei mascalzoni, tutta gente di malaffare… “la sporcizia della città!”. Sotto a quella sporcizia, però, continua Papa Bergoglio, «c’erano le braci del desiderio di Dio, le braci dell’immagine di Dio che volevano che qualcuno li aiutasse a farsi fuoco»…  riportava loro la dignità, dignità di figli amati e per questo cercati, aspettati, accolti. «E questo lo faceva lo sguardo di Gesù»… e con quanta generosità! La sua predilezione, che va in cerca di ciò che è  perduto, non si arresta dinnanzi al peccato, ma anzi vi trova terreno fertile per piantare la ‘ tenda della Misericordia’.  Come è accaduto  nella vita di Matteo e di Zaccheo, di Pietro e di Paolo, di  Agostino e di Francesco…

La tenerezza di Dio, manifestatasi in Gesù Cristo, è via rivoluzionaria che cambia la mente e il cuore, i gusti e i modi di pensare. Con Gesù che ci guarda siamo “in una botte di ferro”, al sicuro ma non prigionieri, protetti ma non controllati…  perché lo  sguardo di Gesù è uno sguardo liberatorio, preveniente fino allo stupore,  lo sguardo misericordioso del Signore ci raggiunge, infatti,  prima che noi stessi ci rendiamo conto  che abbiamo bisogno  di  essere aiutati, soccorsi, salvati e ci raggiunge singolarmente, ognuno di noi ha l’impressione di essere nel suo cuore l’unico, l’eletto, il privilegiato, come ha detto Papa Francesco: «Accade infatti che io vado, guardo Gesù, cammino davanti, fisso lo sguardo su Gesù e cosa trovo? Che lui ha fisso il suo sguardo su di me».  Oggi come ieri  sulle strade della Palestina…  È così che  quello  sguardo divino, che nell’incontro cambiava la vita a tutti, continua a cambiare, solo se lo vogliamo, la vita di ognuno di noi che oggi siamo, fino all’ultimo uomo che sarà su questa terra e non solo perché Lui ha uno sguardo privilegiato per ciascuno di noi  ma anche e, oserei dire ‘soprattutto’ perché ci ha misticamente guardati tutti  nel momento supremo della morte,  «sguardo di Gesù sulla Croce: guardò la mamma, guardò il discepolo e ci ha detto, con quello sguardo, ci ha detto che la sua mamma era la nostra e che la Chiesa è madre».  Con uno sguardo ci ha fatto eredi e, contemporaneamente,  sua eredità nel cuore della migliore delle Madri… L’ultimo dono di Gesù all’umanità! Gesù aveva donato tutto per darci la salvezza: la sua carne e il suo sangue, misticamente ed in modo incruento, istituendo nell’Ultima Cena il Sacramento dell’Eucarestia e  stava offrendo  la sua stessa vita fino all’ultima goccia di sangue sul  Calvario,  Gli restava solo la Mamma. Per darci un’altra prova del suo infinito amore, nello spasimo dell’agonia,  ci offri anche sua Madre perché diventasse  pure nostra Madre, Madre universale di tutti gli uomini. Occhi di Cristo annebbiati dalla morte incombente,  occhi di Madre bagnati dalle lacrime,  reciprocità, incontro di sguardi,  per un dono che profuma di eterno. Lo sguardo di Maria ci accompagnerà, infatti,  fino a   quella  soglia, oltrepassata  la quale,  incontreremo realmente  il primo ed  interminabile sguardo del Figlio nell’amplesso eterno di Dio Trinità:   «… tutti noi ci troveremo davanti a quello sguardo, quello sguardo meraviglioso. E andiamo avanti nella vita, nella certezza che Lui ci guarda. Ma anche Lui ci attende per guardarci definitivamente. E quell’ultimo sguardo di Gesù sulla nostra vita sarà per sempre, sarà eterno».

Con gli occhi del cuore al centro della nostra esistenza - La vocazione

Fra i tanti sguardi di Gesù, a cui il Vangelo  fa riferimento, mi piace richiamare quello rivolto al giovane ricco: «Gesù, guardandolo, lo amò» (Mc 10,21).  Quanta forza attrattiva in quegli occhi pieni di amore!  Questo stesso sguardo dobbiamo sforzarci di donare perché è importante, per noi cristiani, dare amore e  fare in modo che gli altri si sentano amati da noi. “Ubi caritas et amor, ibi Deus est”. Il cammino è tracciato!  Senza amore il seguace di Cristo non va da nessuna parte, l’amore, infatti, non guarda solo indietro, né si ferma nell’immediato, ma punta lo sguardo in avanti, come il contadino durante la fatica della semina. È così che  ogni vita fiorisce nel dono di sé agli altri, secondo  la vocazione ricevuta: nel sacerdozio ministeriale, nella verginità consacrata, nel matrimonio, così che ognuno, condividendo i doni ricevuti, soprattutto con i poveri e i bisognosi, diventa  capace di  lavorare per l’avvento  del regno di Dio, hic et nunc, qui ed ora e, contemporaneamente, impegnandosi  a costruire un  mondo  sempre più  vivibile, sia a livello strutturale che ideologico, di  promuovere e difendere la cultura della vita contro qualsiasi minaccia di morte e di difendere la dignità e i valori di ogni uomo secondo l’originario progetto del Creatore. Tutto parte dalla fede: o crediamo in Dio Padre e nel suo Verbo- Gesù Cristo oppure il mondo ci farà schiavi con le sue effimere illusioni, ci ingannerà con le sue false chimere   e ci intrappolerà nella rete delle sue sirene ammaliatrici. La fede, che alberga nel nostro cuore dal giorno del  battesimo,  è quel  seme che dobbiamo custodire e coltivare  dentro e fuori di noi, con  attenzione  e costanza, come la parabola del Seminatore  insegna, attingendo la vigilanza e la perseveranza alla fonte della potenza creatrice della Parola di Dio. Avere fede significa credere che non vi è alcuna cosa al  mondo  che possa valere quanto il guadagnare Cristo,  fidarsi di Lui, confidare nel suo amore, lasciarsi conquistare dalla sua celeste sapienza. Fidarsi, confidare, lasciarsi sono verbi che presumono la nostra adesione perché Lui non opera se noi non lo vogliamo! Se noi, però,  Gli apriamo le porte del nostro cuore, Lui entra, ne prende possesso, ci porta la Pace vera e, da  Amico sincero che mai tradisce, facendosi  nostro compagno di viaggio, arricchisce e dona senso alla nostra vita, anche a costo di rivoluzionarla. Perché l’incontro con Gesù in qualunque modo avvenga,  e può avvenire in diversi modi, cambia, comunque, la vita. È questa una grande verità  che Gesù stesso ci consegna nelle due parabole del tesoro nascosto in un campo (Mt 13,44-46).  e della perla preziosa  (Mt 19, 16-26)   In entrambi i casi, sia nella vita di colui che trova il tesoro che in quella di chi acquista la perla preziosa,  tutto cambia e nulla è più come prima.
Entrambi, infatti,  vendendo  tutti i loro averi, chiudono  con il proprio passato e si aprono ad un futuro fino  a quel momento impensabile ed  imprevisto,  sconosciuto ed imprevedibile che,  nel suo evolversi,  richiederà, però, la stessa grande fede  e lo stesso coraggio della rinuncia a tutto per non perdere la ricchezza trovata. Solo chi possiede questa forza del distacco e dell’abbandono di tutto, può fare il salto di qualità e passare da una vita  spirituale mediocre, fatta spesso di  apparenze, ad una vita   “ad alto profilo” intessuta di autenticità e  verità., ma pur sempre in itinere, pur sempre in salita,  un mistero tutto da scoprire, giorno dopo giorno,   ma pur sempre “in novità di vita”. Possiamo dire che il contadino e il mercante  riescono a fare ciò che non è riuscito a fare il giovane ricco, al quale abbiamo sopra accennato, egli ha  evitato di incrociare il suo sguardo con quello di Gesù, non si è lasciato conquistare il cuore e, volgendo le spalle, ha  rifiutato  di  aderire alla proposta  del Maestro Buono:  “va’ vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”  (Mc 10,21). La sua vita sarebbe potuta cambiare, ma lui non ha avuto  coraggio, non è stato capace di fare il grande passo “perché aveva molti beni ”, ha deciso, così, di continuare a vedere le cose con gli occhi della carne e di scegliere con  il cuore attaccato ai beni della terra e la tristezza è divenuta sua inseparabile compagna di vita. Sì, perché  accogliere Gesù riconoscendolo come il Tesoro prezioso e la Perla dal grande valore, significa assaporare la gioia di vivere, andare incontro alla felicità perché Gesù non ci ruba la gioia. anzi ce la dona .
Proprio questa è la scelta di quanti decidono  di dedicare totalmente la loro vita al Signore,  professando i consigli evangelici di povertà, castità ed obbedienza. 

Con lo sguardo e il cuore dei consacrati

La vocazione  sacerdotale, religiosa o di speciale consacrazione è, come ha scritto il Papa  nel tweet  del 9 agosto 2017, nella memoria liturgica di santa Teresa Benedetta della Croce, “la parabola appassionata di chi lascia tutto per quella scintilla che cambia la vita, per quello sguardo da cui non si può fuggire, per quella verità che è una persona: Cristo”. Nell’omelia della S. Messa per la XXIV giornata mondiale della vita consacrata, l’ 1-2- 2020, lo stesso Santo Padre ha dato dei consacrati, e non poteva essere da meno, in quanto lui stesso è religioso gesuita, una definizione, secondo il mio modesto parere,  a dir poco completa: «Anche voi, cari fratelli e sorelle consacrati, siete uomini e donne semplici che avete visto il tesoro che vale più di tutti gli averi del mondo. Per esso avete lasciato cose preziose, come i beni, come crearvi una famiglia vostra. Perché l’avete fatto? Perché vi siete innamorati di Gesù, avete visto tutto in Lui e, rapiti dal suo sguardo, avete lasciato il resto. La vita consacrata è questa visione… . Ecco che cosa vedono gli occhi dei consacrati: la grazia di Dio riversata nelle loro mani. Il consacrato è colui che ogni giorno si guarda e dice: “Tutto è dono, tutto è grazia”. Cari fratelli e sorelle, non ci siamo meritati la vita religiosa, è un dono di amore che abbiamo ricevuto». Ne consegue che, sono sempre parole di Papa Francesco: «Gesù, dobbiamo domandarci ancora, è davvero il primo e l’unico amore, come ci siamo prefissi quando abbiamo professato i nostri voti? Soltanto se è tale, possiamo e dobbiamo amare nella verità e nella misericordia ogni persona che incontriamo sul nostro cammino, perché avremo appreso da Lui che cos’è l’amore e come amare: sapremo amare perché avremo il suo stesso cuore» (Lettera Apostolica del Santo Padre Francesco a tutti i consacrati in occasione dell'Anno della Vita Consacrata, 28.11.2014). La domanda che il consacrato deve , allora, porsi è: «Cosa avrebbe fatto, pensato… Gesù in questo caso?». Gesù è venuto per servire e non per essere servito. (cfr Mc 10, 45).  Chi tiene lo sguardo  fisso  su di Lui, chi vive  per imitarlo,  impara a vivere per servire e, per farlo,  non aspetta di essere cercato,  che gli venga fatta una qualche richiesta ma egli stesso si mette in cerca di  chi è in situazioni di disagio, previene chi è  nella necessità.  Il mondo ha bisogno di  occhi che cercano il prossimo, di cuori che sanno, a loro volta, farsi prossimo di  chi è distante, immettendo  nel mondo, lo sguardo  compassionevole  di Cristo, sguardo che va in cerca dei lontani; sguardo che non condanna  ma incoraggia, libera, consola e, per far questo,  Gesù, mosso da compassione, ha donato la sua Parola, ha  guarito  ammalati, risuscitato i morti, liberato gli ossessi, ha cambiato l’acqua in vino, moltiplicato i pani e i pesci, ha offerto la sua stessa vita.  Così anche i consacrati, usando delle cose del mondo, non come fine dell’esistenza ma come un mezzo per  conquistare il  Regno dei Cieli e per aiutare gli altri a fare lo stesso, si pongono a servizio di quella parte di umanità a cui lo Spirito li invia  nei modi più diversi: l’evangelizzazione , la catechesi,  la preghiera, l’istruzione, il servizio ai poveri, l’assistenza agli ammalati, ai carcerati, ai profughi … secondo l’intuizione carismatica dei fondatori  e, in questo ambito, la fantasia della carità non ha conosciuto e non conosce limiti e ha saputo aprire innumerevoli strade e tante altre ne aprirà per portare il soffio del Vangelo nelle varie  culture e nei più diversi ambiti sociali  fino agli estremi confini della terra . Chi segue Cristo  si apre, infatti, ad orizzonti sempre più  vasti,  in questo modo non solo è sempre disponibile a vivere “in novità di vita” ma anche  ad accogliere  le sorprese della vita stessa, belle o brutte che siano e da qualunque parte provengano  e, di conseguenza, è  sempre   pronto a nuove sfide, per cui la sua esistenza, pur guidata dall’obbedienza,   non  sarà mai  una monotona ed asfissiante 'applicazione di una «regola»   ma  l’intelligente e liberante sequela del discepolo che,  rivolgendo, costantemente,  i suoi occhi verso il  Maestro, diventa capace, come afferma Papa Francesco,  di  «leggere con gli occhi della fede i segni dei tempi» e di «rispondere con creatività alle necessità della Chiesa».
Altro che “fuga mundi”! Da  quanto detto si ricava l’immagine di una vita consacrata immersa nelle problematiche e nel frastuono del mondo  in cui, però,  il consacrato  deve essere capace di ritagliarsi spazi di  silenzio per incontrare  il Signore e trovare  nella preghiera e nella divina Parola  forza e coraggio, pace e  consolazione. Tenendo lo sguardo fisso su di Lui, il consacrato si  rinnova costantemente  e, nella fedeltà del Maestro,  si riconferma nella  sua fedeltà.  Questa dinamica  vale a  preservare  da quello che il Papa   definisce “lo sguardo mondano”; “lo sguardo che non vede più la grazia di Dio come protagonista della vita e va in cerca di qualche surrogato: un po’ di successo, una consolazione affettiva, fare finalmente quello che voglio. Ma la vita consacrata, quando non ruota più attorno alla grazia di Dio, si ripiega sull’io. Perde slancio, si adagia, ristagna…”. Questo  malessere spirituale pernicioso e contagioso , come una spada di Damocle, incombe sulla vita religiosa  e si accompagna ad un’altra tentazione non meno grave: la sfiducia: “Non si vede più il Signore in ogni cosa, ma solo il mondo con le sue dinamiche, e il cuore si rattrappisce. Così si diventa abitudinari e pragmatici, mentre dentro aumentano tristezza e sfiducia, che degenerano in rassegnazione quando non in abbandoni” (Papa Francesco: ai consacrati, 1- 2 – 2020) . Sbagliato andare dietro al mito del successo, molte volte i risultati possono deludere,  si può spesso faticare nel dissodare il terreno, nel seminare ma può valere il proverbio citato anche da Gesù:  “uno  semina  e l’altro raccoglie”, (Gv 4,37), quello che importa è fare la propria parte ed affidare il compimento a Dio, il Vangelo ci parla di seme che deve marcire (cfr Gv 12, 24) per generare la spiga e il Vangelo deve essere  il "vademecum"  di ogni cristiano per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Non basta , quindi, leggerlo e meditarlo ma bisogna calarlo, incarnarlo nella vita, viverlo con radicalità e sincerità. La radicalità è richiesta a tutti i cristiani nelle modalità inerenti al loro stato di vita ma   i  consacrati, che  seguono il Signore in maniera speciale,  debbono, con i loro insegnamenti e la loro testimonianza, saper essere «uomini e donne, secondo le aspirazioni del Papa, capaci di svegliare il mondo». La Chiesa, il mondo, la società  dei nostri giorni, come ieri e così  sarà anche per il futuro, avranno sempre bisogno di  persone consacrate  capaci, alla luce del Vangelo,  di indirizzare verso il bene, di combattere il peccato  e il male da qualunque altra fonte provenga e di denunciare ogni struttura di  ingiustizia. Altro che  proclamare  l’inutilità,  il non senso, la fine della vita consacrata! Senza contare che il nostro  è “ un pianeta malato” . Noi  che lo abitiamo siamo  di conseguenza  chiamati a difenderci dalle insidie latenti o meno di  una natura, a torto o a ragione,  ribelle;  non ultimo,  allo stato attuale, anche dal flagello di questa pandemia imprevista e dagli esiti imprevedibili, mentre arriva  dagli Usa la notizia di  un’altra epidemia “per mancanza di senso”  che ha registrato, nel 2017, solo negli Stati Uniti, 158.000  vittime “morte per disperazione”: suicidio, overdose o malattie correlate all'abuso di alcool, (SOLE 24 // 16- 08-2020) Papa Francesco, il papa della ‘laudato si’ sulla cura della ‘casa comune’ ci prospetta, pure,  la lotta contro tutto ciò che può  minacciare la vita sul nostro pianeta e la creazione tutta di cui siamo stati costituiti custodi e non patroni. L’ impegno maggiore, ovviamente, va orientato verso la vita umana perché non sia abusata e calpestata, mercificata e barattata ma le siano  conservati o restituiti senso e dignità, col tutelarne valori e diritti. Nella libertà del cuore e della mente  i consacrati possono  adempiere a questo dovere  perché moralmente non debbono  rispondere ad altri padroni se non a Dio, non hanno altri interessi che quelli di Dio e, come Dio, stanno dalla parte dei poveri e degli indifesi,  degli ultimi, dei dimenticati, di quelli che sono lo scarto della società. In questo consiste l’irrinunciabile  profezia della  sequela Christi , una condizione in continua tensione  tra  quella che consideriamo una ‘vita normale’  e la ‘dimensione escatologica’ che il consacrato  incarna, a volte anche in maniera drammatica, al punto che,  non di rado, come è accaduto per quasi tutti i profeti può venire la tentazione di fuggire ( Elia, Giona,), di sottrarsi al compito di profeta (Amos, Geremia, Ezechiele), perché troppo esigente, perché si è stanchi, delusi dai risultati. Ma d’altra parte, “nelle opere divine nulla di grande nasce senza dolore” (SK 631) per cui  l’apostolo non deve mai sentirsi sconfitto  dalle circostanze, né sottomesso o  calpestato  dagli uomini, tanto meno abbandonato

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