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"L’arte dell’annuncio" in carcere e in parrocchia

Pubblicata il:  4 Maggio 2023



Il settimo incontro del corso “L’arte dell’annuncio” di martedì 2 maggio ha approfondito le possibilità di evangelizzazione e di missione in due realtà non facili con la testimonianza di chi accompagna all’incontro con il Signore i carcerati e l’analisi delle criticità e al tempo stesso delle sfide delle realtà parrocchiali italiane oggi.





Padre Raffaele Di Muro, rettore della Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura, ha aperto il pomeriggio proponendo la sua esperienza di pastorale carceraria presso le detenute di Rebibbia iniziata nel 2009. Per comprendere le modalità di annuncio possibili in carcere, ha prima descritto questa realtà.  Quando si varca la soglia di un carcere si ha subito la sensazione che i diritti della persona siano congelati; per qualunque cosa c’è bisogno di un permesso. Il carcere è una comunità internazionale con tante provenienze.  Ci sono coloro che entrano ed escono dal carcere per piccoli reati, come piccoli spacciatori, ladri, la realtà dei Rom. Soprattutto questi ultimi sono facili da avvicinare ma difficile proporre un discorso di fede proprio per la brevità delle pene e per motivi culturali.  Di solito è con le lunghe condanne che si può fare un lavoro pastorale più a lungo termine. Qui c’è la possibilità di un cammino continuo. Un altro gruppo è formato da coloro che hanno compiuto reati all’interno della criminalità organizzata (mafia, camorra, estremismo ideologico…). Per costoro i contatti con il mondo esterno sono limitati. Infine, ci sono “gli infami”, come vengono chiamati dagli altri detenuto, ovvero i collaboratori di giustizia o coloro che hanno commesso reati di pedofilia e violenza sessuali. C’è un’altra categoria, non facilmente individuabile, che sono gli innocenti in carcere.  Quando si entra in un carcere bisogna partire dal fatto che siamo di fronte a persone sole, che nessuno ascolta. Fondamentale è l’ascolto e il dialogo. Papa Francesco ha fatto e detto molto sulle carceri. Seguire Gesù tra le mura di un carcere è possibile, qualunque sia il tipo di reato. È importante andare oltre la storia della persona. Il Signore entra per guarire. Sono possibili cambi radicali anche nelle situazioni più impensabile. Bisogna partire proprio dalla forza dell’accoglienza. Dentro un carcere si fa esperienza di una vita fallita, il condannato si sente bollato per la vita. È fondamentale dare una speranza, accogliere. Ci possono essere diverse modalità.
Fondamentale è la forza della preghiera e dei sacramenti. Sapere che puoi pregare ha un valore molto grande. È fondamentale entrare nella solitudine di queste persone per far capire l’importanza del dialogo con il Signore che non si scandalizza per ciò che hai fatto. Il Signore guarisce, parla al tuo dolore, agli errori del passato. Si può far capire l’importanza della missione attraverso piccoli lavori che coinvolgono il detenuto per un un’opera di carità. Centrale è la celebrazione eucaristica, è il momento in cui possono sentirsi liberi. Anche la confessione è un momento liberante. È importante favorire questi momenti e l’incontro con la Parola. La Parola di Dio è un momento di libertà, di grazia di Dio, che tocca il cuore al di là di ciò che hai fatto. Non di rado detenuti chiedono il battesimo o la cresima, quando scoprono che il Signore non giudica, non chiude le porte, ma accoglie sempre il tuo grido. Preghiera, Parola e sacramenti sembrano cose ovvie, ma non dimentichiamoci che si parla di Dio a cuori devastati. È importante un’azione condivisa di tutti gli operatori: volontari e sacerdoti. E non va sottovalutato il sostegno alle famiglie di detenuti.





La seconda parte del pomeriggio è stata affidata a Fratel Enzo Biemmi che ha introdotto il tema della conversione missionaria delle parrocchie. Partendo da un’immagine simbolica, la Chiesa di San martino in Valle di Cadore il cui terreno circostante è franato, fratel Enzo ha illustrato le crisi della parrocchia in Italia e nell’Europa meridionale. La parrocchia che fino a una trentina di anni fa era il centro del villaggio oggi vive sette crisi: di fede, di persone, di pensiero, di strutture, di comunicazione, di credibilità, di identità. Di fronte a queste crisi Papa Francesco con l’Evangelii Gaudium ha lanciato una scommessa, quando dice che la parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità (EG 28). In realtà la parrocchia è una struttura caduca e poco plastica se non si prende in considerazione la condizione che pone il Papa, ovvero la docilità e la creatività missionaria. La parrocchia oggi è chiamata ad una dimensione missionaria, ma non dimentichiamo che non è nata missionaria. È nata per organizzare un territorio cristiano. Si tenga presente che l’arretramento della civiltà parrocchiale in alcune zone d’Europa è un processo già concluso. In Italia, come parlare di missione quando la maggior parte di chi si rivolge alla parrocchia la usa come un sacramentificio, una stazione di servizio? Non vengono a chiedere la fede, vengono a chiedere sacramenti e noi vorremmo proporgli la fede. In questo quadro si è inserita la pandemia che ha avuto un effetto di accelerazione e di lente di ingrandimento. Si è visto chiaramente che iniziazione cristiana non inizia alla fede, che non c’è corrispondenza con i territori. C’è stato smaltimento di chi veniva per abitudine, che hanno visto che si poteva vivere anche senza partecipazione. Si è accelerata l’interruzione della fede per abitudine. D’altro canto, c’è stato chi ha scoperto una partecipazione per convinzione. La reazione delle chiese europee di fronte a crisi del cristianesimo sociale può essere di due tipi. O si fa resistenza spostandosi in altri continenti mentre in Europa si resta come piccolo resto evangelico, come un fortino in rapporto contro-culturale, o si ripensa la forma del cristianesimo a favore della cultura attuale.
Per Biemmi, la strategia del ripensamento dal Cristianesimo è la risposta al grido dello Spirito di tutti coloro che se ne vanno. Bisogna partire dalla domanda: chi si è allontanato da chi? Al momento in Italia si è operata la riorganizzazione in unità pastorali. In tal modo resta il vecchio modello portando al collasso i parroci, è un lavoro per accumulo e non di ripensamento. Resta la domanda: la parrocchia missionaria è possibile o è un ossimoro?
Per rispondere bisogna innanzitutto iniziare una ricerca dell’essenziale, un discernimento su cosa sia essenziale per la vita della fede. È necessario che la Chiesa non resti attaccata alle proprie strutture, neanche le parrocchiali, e che attui una riforma interiore. Due sono le coordinate da salvare: la missione di annuncio del Vangelo reso disponibile a tutti; lo statuto della comunità cristiana nella società come prossimità di Dio e segno della carità di Cristo. Per ricentrare l’azione parrocchiale su questi due elementi ci sono ad oggi tre ipotesi.
C’è la via della Parrocchia liquida che si destruttura e si propone di essere presente con un accompagnamento delle fasi della vita, una pastorale di eventi e la cura della dimensione mistica; c’è poi il modello di una Parrocchia di servizi religiosi aperta a tutti che in opposizione al modello comunità-setta propone il modello “servizio pubblico religioso” consentendo la partecipazione di tutti alla vita religiosa rispettando diverse soglie di implicazione personale; e infine, la Parrocchia connotata da “una stabilità processionale”, una comunità strutturata ma in cammino di sequela di Gesù e di prossimità con la gente del quartiere. Questa parrocchia “processionale” è custode dell’ambivalenza di stabilità e estraneità nel mondo, che fin dalle prime comunità ha sempre caratterizzato il cristianesimo.

“L’arte dell’annuncio” termina il 9 maggio con le lezioni di Rosanna Virgili e Marco Frisina.


 
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